Ritorna spesso nella prosa di Stryjkowski l’uomo disperato, abbandonato a sé stesso da un Dio crudelmente indifferente, l’uomo costretto per ciò a uno sforzo sovrumano per alzarsi in piedi e lottare, da solo, per salvare gli altri e sé stesso. “Se la letteratura di un registro così alto, ha scritto il critico Waldemar Cholodowski, si svolgesse in un mondo appena un po’ più astratto, essa scioccherebbe per il pathos insopportabile e per la tendenza moralizzatrice. Ma la maestria letteraria, basata essenzialmente sull’arte di costruire i personaggi a partire dai dialoghi, mantiene la realtà descritta nei limiti della letteratura. […] Ciò che permette di non cadere nel vuoto estetico è la concretezza: un villaggio della Galizia con la sua piazza del mercato, con la sua via Krzywa (che in polacco sta per ‘via Storta’, perché abitata da ladri e ubriaconi), con la sua popolazione ebrea, i piccoli artigiani e i commercianti, il ritmo dei sabati e dei giorni di festa, qualche moglie d’avvocato nobile, un amore da Romeo e Giulietta ebrei che fa palpitare tutta la cittadina, con storie che si ripetono di famiglia in famiglia, di generazione in generazione, sul figlio di un sarto o di un calzolaio di un misero borgo vicino che, grazie alla tenacia e al timore di Dio, è diventato un celebre violinista o un banchiere che frequenta le corti di re e imperatori”.
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